Una Pittrice Zen Nel Chianti
Articolo sul Tirreno di Sabrina Carollo
Ci sono i vigneti e gli ulivi, ci mancherebbe.
Ma il Chianti riserva anche diversi angoli più selvaggi, in cui il bosco prende
il sopravvento e pare nascondere le tracce dell’uomo tra querce, castagni,
lecci e naturalmente pini marittimi. In una di queste macchie di foresta è
venuta a ritirarsi Debora Antonello, artista veneta trapiantata in Toscana. Il
suo lavoro parla tanti linguaggi, usa tecniche differenti e svariati
procedimenti, ma il cuore dell’indagine rimane lo stesso: il senso, il sacro,
la vita. Una ricerca umana prima ancora che artistica, che nel segno grafico
trova solo la sua espressione più evidente. È proprio questa ricerca che l’ha
portata ad allontanarsi dai luoghi in cui è cresciuta (“rotonde e capannoni”)
per spostarsi a Montefioralle prima e a Castellina poi, dove ha trovato una
dimensione particolarmente adatta a stimolare le sue narrazioni visive.
“Volevo lavorare lontano dal conosciuto”,
spiega l’artista, che ha scelto di isolarsi quanto più possibile per
concentrarsi su ciò che vuole esprimere. “Per me l’arte è poesia, riflessione,
ricerca. Le cose facili e ripetitive non mi interessano”, aggiunge. Da qui la
decisione di non frequentare i salotti buoni di Milano, le gallerie pretenziose
del Veneto e di sistemarsi in una zona isolata del Chianti, circondata da un
mare di alberi, lavorando direttamente con collezionisti e clienti, per non
essere costretta a riti e abitudini che non le appartengono, per conservare
quanto più possibile la propria libertà estetica e autenticità. Una strada non
semplice, che l’ha portata a fare anni di gavetta, di piccole esposizioni
collettive, di lavoro estenuante, fino alla svolta del Giappone, dove il suo
lavoro è molto apprezzato e con cui mantiene un rapporto costante di
collaborazione. “Lì non ti chiedono cosa rappresenta, osservano e seguono
l’emozione”, spiega. Un mondo differente in cui la sua esperienza grafica, che
si alterna e confluisce anche nelle opere pittoriche, ha particolare fortuna.
Sarà per la grande capacità di sintesi delle sue immagini, per la poesia che
esprimono, per la sacralità che emerge a ogni gesto. Un tratto quasi zen, il
suo, in cui la linea è segno essenziale che racchiude un mondo di significati.
“Rappresentare l’uomo mi imbarazza, dopo
Caravaggio mi sembra senza senso” ride. “Preferisco raccontare il paesaggio,
esterno e interno, e lasciare la presenza a livello informale”. Se i dipinti
convogliano la sua filosofia, la rappresentazione mediata dalla mente, la
grafica è la sua espressione più lirica, in cui si abbandona, concentrandosi
sulla tecnica, a ciò che emerge dall’inconscio. Le sculture invece
rappresentano la parte più gioiosa e giocosa di Debora, in cui si concede di
tornare bambina e divertirsi con oggetti del bosco e colori.
Nell’arte ci è cresciuta: il padre, pittore a sua volta, aveva il torchio in casa e le ha insegnato le prime tecniche, che poi ha affinato a Venezia, alla Scuola Internazionale di Grafica e all'Atelier Aperto. Negli anni ha proseguito in modo autonomo la ricerca su strumenti e supporti, realizzando grafiche sempre più sperimentali, tecniche all’avanguardia, difficilmente etichettabili, mettendo a punto un proprio percorso espressivo, originale e unico. Un percorso che cerca di condividere con alcuni studenti e con i carcerati di Regina Coeli, dove ha tenuto diversi corsi di pittura “inventandomi soluzioni per stampare senza usare gli strumenti di incisione, ovviamente proibiti” spiega. E ora aprendo al territorio il proprio studio, dove vorrebbe organizzare incontri e presentazioni, occasionali ma stimolanti. Del resto da questa terra sente di aver ricevuto molto: la serenità che trasmette, il silenzio, la possibilità di vivere al riparo dagli eccessi dell’esistenza cittadina per dedicarsi alla riflessione. E nutrirsi di stimoli e immagini, oltreché di ottimo vino e piatti gustosi: non è un’asceta, Debora, ma sa coniugare i suoi aspetti più privati, che esprime a immagini, con un lato socievole e godereccio.